Per inviare richieste

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Per inviare un'offerta o una richiesta di aiuto l'indirizzo comune della PROTEZIONE CIVILE e del MIBAC Emilia Romagna e:
sisma2012@regione.emilia-romagna.it
***********************************************************************************

mercoledì 19 dicembre 2012

COME ALL’AQUILA ? NO, PEGGIO


_____________________________

COME ALL’AQUILA ? NO, PEGGIO

La legge sulla ricostruzione dell’Emilia Romagna completerà l’opera del terremoto. E le soprintendenze di rincalzo: “dov’era, ma non com’era!”


Se all’Aquila un mix di insipienza e prepotenza ha pregiudicato la rinascita del meraviglioso centro storico abruzzese, le norme elaborate dalla Regione Emilia Romagna si propongono di fare molto peggio e in nome di uno pseudo efficientismo, del risparmio energetico, della sicurezza consentono, dietro la semplice dichiarazione di un tecnico, di demolire tutti gli edifici storici danneggiati, aggirando le disposizioni di tutela previste dalla pianificazione comunale .

Se all’Aquila non sono stati in grado di concludere nulla, hanno  procurato guai solo in quel centro storico : in Emilia Romagna propongono di estendere a tutti i centri e nuclei storici terremotati le nuove norme, degne del piccone demolitore.
Per ora esse riguardano i comuni colpiti dal sisma ma presto, siamo facili profeti, saranno estese a tutti i centri storici della Regione.

Questo obbrobrio cancella d’un colpo le politiche di conservazione dei tessuti edilizi storici attuate attraverso il restauro, nate e praticate in questa regione, che hanno costituito un modello imitato in tutta Italia e che ha fatto scuola in tutti i Paesi europei,  facendo sì che i principi della tutela fossero il cardine delle politiche riguardanti le città storiche.

Scompare, definitivamente cancellata,  la nozione stessa di centro storico, costituito dall’intero tessuto degli edifici che il tempo ha stratificato nella parte antica della città, creando un unicum fatto di edifici, monumenti, palazzi, spazi pubblici, piazze, del quale a malapena si vogliono salvare solo i pochi edifici vincolati ai sensi del Codice dei BBCC, ritornando ad una concezione superata da decenni, secondo la quale sono i soli monumenti ad avere il diritto ad essere conservati.

Anzi neppure gli edifici monumentali possono dirsi salvi e per essere sollevate dal dovere del restauro e del ripristino le soprintendenze hanno bisogno di una norma regionale che liberi da tale regola gli edifici danneggiati soggetti alla loro tutela. Una perversa alleanza contro i patrimoni urbani storici. E proprio negli ambienti della direzione regionale per i beni culturali è stato lanciato il perverso slogan generalizzato del “dov’era, ma non com’era”.

 Che razza di idea è mai questa, se l 'obiettivo è il restauro? E le soprintendenze solo di restauro debbono occuparsi. Il fatto è che la metodologia del restauro, che si è  consolidata soprattutto in Italia ove è ampiamente utilizzata con criteri, materiali e tecnologie derivati dalla tradizione, che ormai hanno raggiunto applicazioni all'avanguardia grazie a maggiori garanzie, prove e metodi di calcolo ottenuti con tecnologie innovative, non viene sufficientemente valorizzata nell’opinione corrente e alcune Università, non esenti dalla civetteria delle innovazioni, non ne riconoscono il valore scientifico.

Il perché è assai semplice. La posta in gioco è altissima: oggi chi paga non vuole impegnarsi con il restauro, preferisce assemblare elementi garantiti, evitare responsabilità e calcoli puntuali, mentre molti progettisti, rivendicando una loro originalità espressiva, vogliono lasciare la loro impronta nei tessuti storici.

Allora il "non com'era" non diventa la mediazione fra i supposti “estremisti della conservazione” e il piccone demolitore, ma una strada maestra per far prevalere con prepotenza proprio il piccone, sposando così la povertà culturale e professionale con la cancellazione del patrimonio storico.

Tutto ciò è dimostrato  dalla legge regionale in discussione sulla ricostruzione, con l'ipocrisia di enunciati che predicano la tutela mentre le norme di fatto aprono ogni porta alla demolizione.

Il Piano della ricostruzione, infatti, tratta espressamente trasformazioni e incentivi urbanistici e le modifiche alla pianificazione vigente. Meglio sarebbe, in comuni normalmente dotati di buni Piani, accelerarne le procedure. Questo piano è uno strumento che dal dopoguerra all’Aquila ha consentito i peggiori interventi.

La ricostruzione diviene allora occasione di sviluppo, come affermano impudentemente politici di ogni colore fin dai tempi dell’Irpinia, e si sostanzia in premi di volume, variazione dello stesso tessuto urbano storico, delocalizzazioni, demolizioni, specie per fare posto a nuove infrastrutture, a spese delle misere risorse messe a disposizione per ridare ai cittadini la loro identità sconvolta. Con la benedizione delle soprintendenze.

L’impiego di tecnologie e risorse umane per una grande opera di restauro sarebbe invece un’opportunità di riqualificazione non solo per il settore edlizio, ma per l’immagine produttiva nazionale e una risposta concreta alla necessità di conservare la propria identità delle comunità colpite.

In questo momento di crisi, riversare denaro destinato al recupero e alla ricostruzione per “delocalizzare”, anziché riparare, abitazioni e attività produttive rende più costoso e meno fattibile il ritorno alla normalità e solleva dubbi sulla destinazione delle risorse pubbliche.

Italia Nostra,
Consiglio regionale – Emilia Romagna
_____________________________________________

martedì 22 maggio 2012

TERREMOTO IN EMILIA - DISASTRO ANNUNCIATO

Continua ad allungarsi, di ora in ora, l’elenco dei danni al patrimonio culturale nell’area terremotata: inatteso, per ampiezza, per chi non ha conoscenza di questi luoghi.
 E’ un tessuto di edifici e infrastrutture storiche diffuso capillarmente e per questo ne va respinta l’etichetta di “patrimonio minore”: proprio perché costitutivo del volto di intere cittadine e paesi, questo patrimonio ne rappresenta la stessa possibilità di esistenza.
Non esiste Finale senza la sua torre dei Modenesi, Palazzo Veneziani, il Duomo, e neppure San Felice senza la Rocca, la parrocchiale eponima, la Canonica Vecchia, Villa Ferri (e la lista è solo esemplificativa, purtroppo).
Non ci sono forse emergenze da lista Unesco, ma un vastissimo repertorio di strutture che, in particolare per quanto riguarda l’architettura militare o quella signorile, testimoniano, nel loro insieme, l’eccellenza monumentale complessiva di un territorio che, fino ad adesso, aveva saputo conservarle con saggezza e competenza.
Fino ad adesso, appunto, perché l’intensità del sisma spiega solo parzialmente la gravità dei danni. Già Jean Jacques Rousseau, dopo il disastroso terremoto di Lisbona del 1755, additava la stoltezza degli uomini, rei di aver costruito troppo, e non la malevolenza della natura come maggiore colpevole della sciagura; così anche ora incuria e insipienza umana hanno aggravato quelli che potevano essere danni ben più sopportabili.

Il fattore moltiplicatore che ha ingigantito l’effetto distruttivo del terremoto sul patrimonio culturale è la mancanza di un programma di manutenzione degno di questo nome.

Da anni, per mancanza di risorse e di personale, non vengono più effettuati controlli sistematici, per non parlare dei restauri riservati ormai solo alle “eccellenze”. Le verifiche anche statiche sono episodiche e legate ad eventi particolari. In pratica questo significa l’abbandono ad un destino di inesorabile degrado, accelerato, in questo caso, dall’evento sismico. E bastano davvero pochi anni di mancata manutenzione per aggravare il rischio di vulnerabilità in maniera determinante.

Come è successo per Pompei: non appena si cessa l’opera di ricognizione e manutenzione, i danni possono essere devastanti. Mancano i mezzi ed è sempre più evidente che il Ministero, il Mibac, annichilito dai tagli lineari tremontiani mai più recuperati, non è più in grado di garantire una decorosa operazione di controllo e manutenzione generalizzata e continuativa del patrimonio che è chiamato a tutelare. A questa condizione di impotenza oggettiva sarebbero chiamati a reagire, in prima istanza, coloro che la subiscono tutti i giorni in prima battuta, a partire dal Ministro e dalla dirigenza del Mibac che, al contrario, sembrano di fatto rassegnati ad una situazione di sfaldamento progressivo del sistema di tutela del patrimonio.
E la cecità nei confronti dei rischi territoriali è ormai generalizzata se le amministrazioni locali hanno potuto dar credito ad un incredibile progetto di stoccaggio di gas naturale in unità geologica profonda nel sottosuolo della Bassa Modenese.
Il progetto, contrastato a lungo dalla sezione di Italia Nostra e da Comitati locali e non ancora abbandonato, prevedeva di immagazzinare tre miliardi di metri cubi di gas naturale nel sottosuolo a circa tre chilometri di profondità esattamente nella zona oggi interessata dal terremoto con palese sottovalutazione dei rischi geologici e sismici che oggi si sono puntualmente manifestati in tutta la loro evidenza.
Contemporaneamente i media ci rimandano il mantra ossessivo di un’idea del nostro patrimonio culturale come strumento per generare ricchezza, petrolio a basso costo in grado di rilanciare la nostra economia perché capace di attirare masse di turisti pronti a spendere.
E che fare allora nel caso dei monumenti colpiti da quest’ultimo sisma, turisticamente poco eclatanti e spendibili, “importanti” non per il turista di passaggio, ma per il cittadino che quei luoghi quotidianamente vive?

Eppure anche in questo caso la risposta sarebbe abbastanza semplice:
un programma nazionale di riqualificazione urbana, conservazione e restauro dei centri storici, consolidamento e manutenzione del territorio avrebbe sicuramente costi elevati, ma del tutto allineati alle decine di miliardi che l’attuale governo e il ministro Passera, in specie, è intenzionato ad investire nelle così dette “Grandi Opere”.
Ma in più garantirebbe un tasso di occupazione addirittura triplo, secondo alcune stime, rispetto a queste ultime. Insomma, più lavoro e la prospettiva di un territorio migliore e di un patrimonio tutelato.
Ce l’aveva già spiegato Cederna oltre trent’anni fa: è tempo di cominciare ad ascoltarlo.

Maria Pia Guermandi